La Sensazione Psichica

27 Novembre 2024

La Sensazione Psichica
Veniamo ad approfondire il percorso sulla sensazione descritto nel libro di M. Liebl: “il Senso nella Psiche”. Il nostro obiettivo è quello di uscire dalla simbiosi, non considerata una patologia, ma come modo di vivere abituale dell’individuo. Vivere una vita che parta dal Sé dove la persona viene prima dell’altro. Il comportamento nasce prima di quello che la persona diversa da sé sente. Per stabilire una relazione equilibrata e costruttiva occorre che la persona sappia distinguere il sé dall’altro in modo logico e non paranoico dove quello che sento io è tutta la verità e quello che sente l’altro non esiste. La verità si crea tra due persone che si parlano, si ascoltano, sanno chi sono e si mettono in rapporto. Per questo la relazione fa uscire dall’assoluto: ciò che sento io non è l’unica verità ma è una delle tante verità che ha bisogno di rapportarsi con gli altri affinché si possa stabilire una sana relazione. L’altro è da considerare un diverso da me e in quanto tale non lo posso conoscere. La conoscenza deve essere il primo bisogno per un rapporto. Naturalmente prima ancora di conoscere l’altro devo sapere chi sono io, che cosa voglio e come mi rapporto. In questo percorso è essenziale lo sviluppo della sensazione (psichica) che non è una teoria, né un principio, né un concetto, ma un esperire. Percepire la sensazione è un processo difficile come è difficile educarsi alla percezione della sensazione. La Sensazione (psichica) è il principio guida del nostro lavoro. L’altro aspetto è il metodo: la via attraverso la quale si sviluppa il lavoro e si ottiene un risultato che è la consapevolezza di sé, il sapere chi si è, cosa si vuole, dove si vuole andare. Quando si parla di uomini e donne si parla di entità che non sono perfette per definizione. In ogni persona si ha il bene e il male. Il male non è ciò che è negativo, ma è ciò che non è produttivo e che non produce il bene ma il malessere. Si può comprendere soltanto se stessi per cui la conoscenza certa e l’unica certezza si ha in sé e quello che si sente, ma non si può essere certi di ciò che l’altro vive. Dobbiamo anche essere consapevoli che non sempre siamo certi al cento per cento di quello che sentiamo noi. Anche questo è un dato relativo. La relazione con l’altro aiuta a conoscersi ancora meglio. La conoscenza spirituale è ciò che penso e ciò che sento; tra due soggetti deve essere ben comunicata. L’altro mi vede fisicamente ma se non parlo e non gli comunico il mio pensiero mi conosce solo come una entità esterna.
Altro aspetto fondamentale dell’esistenza è la morale e l’etica, due componenti essenziali per vivere bene. La morale va intesa come le regole che guidano la mia vita personale e valgono solo per me e che io costruisco attraverso la mia esperienza. L’etica sono le regole che danno la possibilità a più persone di vivere insieme. Per arrivare allo sviluppo del percorso del Senso-nella-Psiche si deve partire dalla sensazione che è una pura percezione di sé stessi. La sensazione comporta la separazione tra l’IO e il TU. La sensazione è soltanto un elemento personale, ed è il contrario della proiezione. Una volta sviluppata la sensazione che viene dal sentire si deve darle un significato che deve essere comprensibile e comunicabile. Facendo questo sviluppiamo il pensiero che viene dalla sensazione e lo comunichiamo attraverso il linguaggio che varia da persona a persona. L’obiettivo è arrivare ad un IO consapevole che non ha la proiezione e la paranoia e che si manifesta per quello che è.
Il titolo dato al corso di quest’anno: “Esistenziale o Terapia, la Sensazione Psichica” va così inteso: la terapia significa che il soggetto ha delle problematiche; nessuno di noi è perfetto e quindi le problematiche sono dell’esistenza e in generale della nostra vita. Esistenziale significa che la nostra esistenza può essere consapevole o inconsapevole. L’esistenziale è una vita consapevole, mentre il terapeutico è quella vita che va a riconoscere le problematiche per risolverle; si passa all’esistenziale quando si è attraversata anche la componente terapeutica. Bisogna prendere le situazioni in maniera diversa e sana, attraverso lo sviluppo della percezione della sensazione e della realtà. In tal modo il soggetto riesce ad elaborare e a definire il proprio stato di salute e di benessere in maniera creativa ed originale e lavorare al fine di potenziare le sue funzioni psichiche. La psiche non è visibile ma c’è e si manifesta nei comportamenti. Attraverso le funzioni si può sviluppare una psiche corretta. Ad esempio ci si può domandare: “Qual è il tema della mia vita?” “Qual è la mia direzione?” “La vita e la nostra direzione sono segnate dal bisogno di capire e di conoscere?” Entriamo così in una nuova definizione dell’IO che è separato dal TU e con il proprio senso interno permette all’individuo di essere in contatto con se stesso. Si parla di percezione “sana” della realtà e sviluppo del principio di realtà.
Ci soffermiamo ora su un sogno fatto da una partecipante del corso facendo una premessa. Per lei l’essere sola prima significava malinconia oggi lo vive come momento per stare con se stessa e vivere il suo tempo per come le piace viverlo. Anticipa anche di aver fatto questo sogno dopo aver visto per strada un manifesto che l’ha colpita e che le aveva dato la sensazione del dissentire. Per lei il manifesto d’arte contemporanea che illustrava indumenti buttati lì a caso e che si intitolava “gioia” le dava il senso di caos. Nel sogno la partecipante si trova in seduta con Grimaldi l’uno difronte all’altra. Lei chiede a lui com’è andata la trattazione del lavoro di lei al quale non ha potuto partecipare, riguardante il congresso effettuato a Roma sul protocollo del training autogeno. Nel sogno Grimaldi comunica che c’è stata la platea degli ascoltatori che aveva qualcosa da ridire sul lavoro di lei. L’immagine successiva del sogno è quella di una platea di persone che parlano tra di loro dissentendo su quello che stavano ascoltando, quale contenuto delle espressioni del lavoro della partecipante non presente al congresso. L’immagine ancora successiva è quella di lei che vedendo la platea di persone e resta sorpresa dalla situazione che non sa gestire. Le compare il dubbio e si chiede: “Ora che faccio?”.
Per approcciarsi al sogno utilizziamo il metodo del “Senso nella Psiche”. La partecipante espone le sue sensazioni. La prima sensazione è la curiosità. Dice che nel sogno di fronte al dottore provava curiosità di sapere l’esito della esposizione che aveva fatto alla platea. Quando vede la platea che comincia a parlare rimane sorpresa e prova quasi uno shock, una immobilità e vive una sensazione di disagio.
Grimaldi ci invita a capire le sensazioni che la partecipante ha vissuto per poi esprimere anche le nostre.
Ognuno di noi esprime le sue sensazioni in riferimento al sogno della partecipante per poi dare il significato alle sensazioni stesse. Si può cogliere il limite dovuto al fatto che non posso sapere quello che l’altro pensa del mio lavoro svolto. Non si parla di impotenza che è un termine improprio per questo e che significa non potenzialità. Ciò che l’altro pensa, per me, è impossibile da sapere e questo è un dato di realtà. Non è quindi una impossibilità o una impotenza ma bensì è riconoscere la realtà: l’altro è diverso ed io non so cosa pensa a meno che l’altro non me lo comunichi. Si ha invece la tendenza a cercare di capire che cosa l’altro pensa e siccome non ci si riesce ce lo inventiamo. Cercare di sapere quello che l’altro pensa è un atteggiamento proiettivo e la proiezione non dà alcun risultato, diventa una alterazione dello stato di realtà. Ora, alle sensazioni della partecipante bisogna dare il significato. La prima cosa da fare è definire le sensazioni. Il sogno permette di prendere coscienza del nostro quotidiano e di avere in se stessi lo strumento per essere coscienti di quello che si è. Il sogno in questione ci dice quello che non abbiamo vissuto durante l’evento e viene rivelato attraverso il linguaggio del sogno che non è logico, ma è preverbale. Si deve cercare di capire il concetto e/o il significato che emerge dal sogno. Molte volte si ha il fatto ma non la sensazione ed il sogno ci riporta la sensazione e ci fa cogliere la nostra esperienza. Il sogno da un lato ci dà la rivelazione e dall’altro ci permette il completamento. Quando parliamo usiamo un linguaggio con una sintassi che ha una consequenzialità. Nel sogno la consequenzialità non c’è, ci sono piuttosto i simboli. Cogliendo i simboli si coglie il significato del sogno. Il processo elaborativo è importante da apprendere per far sì che il sogno non venga interpretato ma diventi una base della sensibilità. Il sogno è il nostro Analista Interiore e Fedele. Si parte quindi dall’elaborazione della sensazione emersa nel sogno e si arriva alla sintesi logica che è il significato. La Dolcetti aggiunge: “C’è un segnale che è la sensazione e noi l’abbiamo ma non ne facciamo uso, anzi, spesso la scavalchiamo”. E’ necessario allenarsi a percepire la sensazione che è l’inizio del riconoscimento di come ci si sente rispetto anche all’ambiente. Il salto di questo segnale ci conduce a volgere la nostra attenzione alla situazione esterna in modo non corretto e non trovando soluzioni restiamo sull’altro invece di osservare l’interno di sé. E’ bene sviluppare la percezione della sensazione e spostare l’attenzione all’interno. Il sogno del quotidiano completa l’esperienza che è sfuggita poiché impegnati in problematiche esterne al sé che fanno parte dell’esistenza. La partecipante rivela il senso del suo sogno: riconosce il desiderio di voler essere riconosciuta per il lavoro che ha fatto. Osserva, tuttavia, che così è sull’altro invece di essere in se stessa. L’atteggiamento corretto è quello di apprezzare da sé il lavoro che si è fatto a prescindere dal pubblico. Osserva poi la partecipante che il suo modo di fare abituale è proprio quello di dare più importanza all’altro e non a quella che è la sua personale considerazione del lavoro svolto. Attraverso il lavoro di Elaborazione-Analitico-Creativa, individua, ora, il senso del dissentire dell’altro come un qualcosa di naturale e non più come un qualcosa che pregiudica il suo star bene. Grimaldi aggiunge: “abbiamo visto come la partecipante abbia seguito la via più comune che è appunto quella di stare sull’altro anziché su se stessi”.
Con il processo di Elaborazione-Analitico-Creativa il desiderio di essere apprezzata dall’altro è diventato il corretto ed autentico desiderio di comunicare per poi verificare ciò che il proprio lavoro ha prodotto. In base alla verifica posso constatare poi se sono sempre io o se sono migliorato. Il giudizio altrui, in questa prospettiva, non suscita timore. Infatti la realtà più comune che si osserva nelle persone è la paura di parlare in pubblico perché si teme ciò che l’altro pensa di noi. Bisogna comunicare in modo comprensibile e se non comunichiamo bene la responsabilità è la nostra. L’altro mi aiuta a capire meglio me stesso e diventa uno strumento di verifica di ciò che io penso e faccio. Il giudizio che l’altro dà non può essere mai previsto e per questo di fronte allo sconosciuto si va in ansia. L’importante è capire che la verifica altrui serve a migliorare il mio lavoro. Si è educati al sentire esterno perché l’uomo si è sempre dovuto preoccupare ed occupare dell’esterno cercando di prevenire quello che fuori succedeva. L’interesse per l’interiorità dell’uomo è scaturito da pochi anni. Quello che funziona è concepire l’esistenziale come il dato reale colto attraverso la percezione e l’elaborazione della sensazione, piacevole o spiacevole che essa sia. Il piacevole e lo spiacevole non lo possiamo inventare noi.
Viene illustrato dal conduttore la relazione fatta al convegno a Roma (2019) sul Training Autogeno e sul protocollo. Il Training Autogeno è un ottimo e valido strumento. Si è integrato il training autogeno di J.H. Schultz con il metodo il “Senso nella Psiche”. In questa prospettiva il Training Autogeno permette di entrare nella sfera profonda della persona e nel suo inconscio e fa emergere nella percezione l’interno della personalità. Uscito dallo stato autogeno la persona può oggettivizzare il suo vissuto durante il training nel modo a lui più congeniale: la pittura, la scultura, la scrittura o il movimento libero etc. Una volta reso oggettivo il vissuto si applica il metodo che consiste nello sviluppare la coscienza di sé con il percorso di Elaborazione Analitico Creativa a partire dalla sensazione psichica percepita. L’apprendimento del metodo e la sua personalizzazione richiede un allenamento costante nel tempo con l’ausilio di una guida preparata. Il metodo può essere utilizzato sia per fini clinici: la terapia, che per quello formativo, in funzione dell’esigenza e della necessità del bisogno di chi pratica. Si acquisisce così il comportamento consapevole nella realtà esistenziale. Quando si registra il contenuto del Training Autogeno bisogna poi riportarlo a sé in modo più neutrale possibile. Questa è la cosa più difficile da fare. Dopo occorre dare senso al proprio contenuto. Si lavora sul materiale emerso e oggettivato nel protocollo con una modalità libera e creativa. Il paziente riferisce le sue associazioni, le considerazioni e applica il metodo della sensazione psichica. Il terapeuta aiuta il paziente a cercare il significato del materiale emerso. Il metodo è uguale per tutti i praticanti. Alcune variazioni tuttavia possono essere necessarie in funzione della personalità e della situazione.
Il metodo è il percorso: fatto-Sensazione-Elaborazione-Coscienza-Pensiero-Azione. Il fatto è costituito dall’esperienza avvenuta nel Training Autogeno che permette il contatto con il sé e il mondo personale e con l’esclusione del mondo esterno.
Dal vissuto del Training Autogeno si ricava la sensazione psichica che è l’elemento solo potenziale della personalità. Richiede l’educazione al sentire di M. Liebl per passare dallo stato potenziale a quello in atto. La sensazione è l’elemento della psiche che dice chi si è nel qui ed ora della realtà a partire dal sé originale di ogni personalità. L’emozione al contrario è il dato naturale che si manifesta da se ed è percepita distinta e separata dalla sensazione. Dopo la percezione della sensazione si ha il percorso intrapsichico dell’Elaborazione analitico-creativa con la quale si trova il significato della persona nella vita. L’Elaborazione è un lavoro autoriflessivo nel quale percezione e cognizione si coniugano secondo il dato spontaneo e secondo la personalità del soggetto. L’Elaborazione del vissuto percepito è ancorata alla Sensazione personale dell’esistenza derivato dal sé, mentre l’interpretazione origina dal ragionamento e crea una condizione astratta e concettuale priva del sentire. L’Elaborazione-Analitico-Creativa scaturisce da dentro, inizia dalla sensazione e dà il senso consapevole della personalità e dell’esistenza propria. Il significato scaturito dalla Elaborazione analitico- creativa si forma nel pensiero logico-formale della personalità. Il pensiero si tradurre in azione nel divenire quotidiano dopo aver preso conoscenza del mondo esterno. La persona trova così la modalità adeguata al suo sé e al mondo nel quale vive per realizzare il suo pensiero consapevole, la coscienza di sé e la conoscenza del mondo.
Una partecipante del gruppo che svolge l’attività di fisioterapista riporta la sua applicazione del Training Autogeno comportamentale ad una paziente. Attraverso l’Elaborazione del contenuto del T.A. è emersa la modalità della paziente che entrava in uno stato di ansietà nella vita quotidiana. Lo stato di ansietà era dato da suoi comportamenti che non le piacevano specie in relazione al rapporto con i figli. Con il Training Autogeno è riuscita a prenderne coscienza e il protocollo ha permesso di rendere oggettivo il disturbo di ansia. L’Elaborazione analitico-creativa ha permesso di prendere coscienza del problema attraverso il metodo al Senso-nella-Psiche. L’individuo si è così attivato per migliorare il suo comportamento nella realtà al fine di ottenere un benessere personale e una buona relazione genitore-figli. La partecipante che ha applicato il Training Autogeno ha potuto osservare che con questo strumento non è possibile scindere il corpo dalla psiche in quanto unità e che la gestione del malessere, evidenziato come dolore e disfunzione d’organo, va visto da una prospettiva psicologica. Il Training Autogeno permette di attivare il percorso indirizzato al miglioramento dando una concreta risposta al bisogno di salute delle persone. La Dolcetti presenta il suo lavoro sull’immagine: da una parte c’è il protocollo di J.H. Schultz e dall’altra il nostro lavoro della ricerca dell’affettività verso la propria persona. Si formano così, quelli che sono i colori dei sentimenti. La Dolcetti racconta che avendo preso disegni del 1500 nelle biblioteche, si è accorta che erano tutti molto belli e in particolare “l’Annunciazione”. Con l’educazione all’immagine c’è la possibilità dello sviluppo e della formazione dei sentimenti, del sentire e del vivere. Il fine è di oggettivare il proprio vissuto e dare il significato personale attraverso il metodo della sensazione che permette di trovare il senso personale del proprio vivere e star bene. Dal metodo il “Senso nella Psiche” e dalla rappresentazione percepiamo la qualità del contenuto del sentire interno della persona. Ogni rappresentazione che la persona fa è una tappa di conoscenza di sé e della realtà. E’ un piano educativo ed elaborativo al fine di cogliere il proprio percorso interiore. L’educazione al senso della psiche è basato sulla sensazione che permette di avere una direzione propria e una salute interiore. La conoscenza diventa una conoscenza personale attraverso la coscienza di sé e del mondo. Il difficile è cogliere il significato di ciò che si sente per se stessi.
Veniamo poi ad esaminare un fatto di vita quotidiana raccontato da un partecipante del gruppo per cercare di percepire la Sensazione provata sia dal partecipante che dagli altri partecipanti del gruppo e dare un significato alla sensazione stessa per arrivare alla elaborazione del vissuto. Il fatto del partecipante è il seguente. Lui vive con il fratello e un giorno, verso l’ora di pranzo, mentre l’acqua sui fornelli bolliva, il fratello nel buttare la pasta stava facendo questa attività, a rilento. Il protagonista chiede al fratello di andare un po’ più spedito. Il fratello risponde: “Ma sei nervoso?” Il protagonista replica: “No, non sono nervoso, volevo soltanto che facessi un po’ più svelto” (alterato dall’espressione del fratello). Poi si è chiesto se replicare al fratello sia stata una reazione emotiva o abbia espresso quello che sentiva. Il conduttore invita il gruppo e il protagonista a descrivere quelle che sono state le sensazioni vissute. Il nostro protagonista dice che si è sentito attaccato. Grimaldi invita a percepire e definire la sensazione che è una sola parola, un solo termine. Il protagonista dice che si è sentito offeso e questa è ancora una costruzione concettuale non è una sensazione. E’ difficile andare ad individuare esattamente la sensazione che è il primo punto da cui parte tutto il metodo. Noi, come gruppo, possiamo immedesimarci nella situazione del protagonista e dare una nostra sensazione come allenamento della percezione del proprio sentire.
Alcuni di noi chiedono se il fastidio e/o il disappunto siano delle sensazioni. La risposta è di affermazione. La sensazione ricordiamo esprime la soggettività. Io ho indicato come mia sensazione: la irritazione. Il protagonista aggiunge un senso di rabbia. Un altro membro del gruppo parla di un senso di discredito. Osserva il conduttore, che lo screditare è un verbo e non è una sensazione. Si arriva poi alla sensazione di svalorizzazione. Un partecipante del gruppo dice di aver provato fastidio ed ira; un altro ancora parla di sorpresa e fastidio; la Dolcetti parla di contaminazione; un altro di sorpresa e rabbia; chi di confusione, dispiacere, per arrivare a parlare infine di ingiustizia e di non essere preso in considerazione e di esclusione. Grimaldi invita a trovare il significato delle nostre sensazioni, cosa significa per noi quello che abbiamo provato. Questo è il percorso della Elaborazione, cioè trovare il significato di qualcosa che è originato da me e per me inaspettato. L’Elaborazione richiede l’essere in contatto con la propria percezione. Il ragionamento è l’uso della facoltà logica per arrivare al senso che sarebbe il risultato dell’elaborazione. Si comincia con il protagonista a definire il senso della sua rabbia. Il protagonista inizialmente dice che la sua rabbia deriva dal fatto che il fratello stava agendo in un modo diverso da quello che lui avrebbe fatto. Si osserva che in questo caso il protagonista non ha raccontato della sua sensazione riferita a se stesso ma ha raccontato di un qualcosa riferito al fratello. La rabbia va riferita a se stesso e non deve rimanere sull’altro. Questo accade molto comunemente, ma l’altro è solo la causa.
Prendiamo la mia sensazione provata che avevo indicato come irritazione, ho potuto cogliere il mio senso: mi aspettavo una risposta diversa e una comprensione diversa. Si osserva che l’altro, quando devo trovare il senso di quello che sento, non c’entra niente. La mia irritazione è data dal ricevere una comprensione che sentivo diversa da quella mia. Ogni volta che ci riferiamo all’altro si esce dalla personale sensazione e si entra in un rapporto di simbiosi con l’altro. Circa il nostro protagonista, la cui sensazione era stata il disappunto e di fastidio nel ricevere una risposta secondo lui aggressiva osserviamo che il fastidio è legato alla risposta del fratello da lui percepita come aggressiva. Il che è diverso dal dire che la risposta del fratello era aggressiva perché, in questo caso, stiamo sull’altro. La percezione del come viene vissuta l’aggressività da noi ci dà il nostro senso. Occorre trovare il significato di ciò che si sente come cosa propria. L’altro è lo stimolo che produce la sensazione da riferire a se stessi.
Un’altra partecipante ha percepito sorpresa e rabbia. La sorpresa per un qualcosa che non si aspettava va bene. Mentre la rabbia è il suo dispiacere per la modalità e non è quello che l’altro fa perché questo è la causa che le provoca la rabbia. La sua rabbia è la modalità che a lei non piace. Un conto è dire provo rabbia e darle il nostro significato un conto è dire che essa è derivata da ciò che l’altro ha fatto. Non è il perché l’altro lo ha fatto ma è ciò che sento che è mio e che mi dà il senso della realtà riferito soltanto a me stesso. Lo stimolo esterno ha solo provocato la sensazione che è mia. Solo così ci può essere la separazione tra l’IO e il TU. Il significato della sensazione di rabbia che ha provato il nostro protagonista è quella di una affettività non corrisposta.
Per chi ha parlato di ingiustizia e delusione. Sull’ingiustizia siamo ancora in una dimensione esterna e sull’altro in quanto l’ingiustizia è un concetto astratto e non è una sensazione. Il partecipante ha dato un’interpretazione di quello che è successo. Questi sono atteggiamenti comuni che si hanno quando ci succedono le cose. Mentre la delusione è una sensazione. Ci confonde quando si va nella dimensione della contaminazione con l’altro e si riferisce all’altro ciò che si vive noi. Questo ci porta a litigare. Si deve imparare a percepire le nostre sensazioni e poi dare loro un senso affinché questo processo psichico diventi automatico e non credere che il solo capire equivalga ad avere compiuto il processo intrapsichico. Non è così. Del resto quando si parla mica si pensa. Si parla perché è avvenuto qualcosa di automatico attraverso un procedimento di allenamento. Grimaldi ci invita a riprendere la nostra sensazione e il nostro significato e provare a dire all’altro quello che è il nostro pensiero. Il pensiero comunicato deve essere logico per potere essere capito dall’altro. Ci sono diverse risposte. La risposta del protagonista al fratello che dice: “sei nervoso” e lui risponde “io sono tranquillo”. In realtà non era poi così tranquillo e ciò si deduce dal fatto che non ha avuto coscienza di quello che provava in quel momento ed è entrato in reattività sull’altro e non ha espresso ciò che sentiva e che era. Quando noi siamo consapevoli di ciò che si sente allora ci si pone verso l’altro in modo non reattivo ma in modo attivo.
Risposta di un altro membro del gruppo: “A me dispiace che tu mi rispondi in questo modo io volevo darti una mano e questo mi crea dispiacere”. Osserviamo che senza il TU, ovvero l’espressione a me dispiace che TU, andrebbe bene; mentre con il TU diventa un dire proiettivo. Corretto è: “Non mi piace questa risposta”. Questa è la risposta personale e corretta, perché parte dal Sé. Per la Dolcetti è già stata iniziata su una cosa dall’altro quindi ritiene corretto non agire per non determinare una contaminazione. Pertanto Lei rimane separata e lascia finire la questione così e trova il modo, la prossima volta, per fare da sé evitando la mescolanza e promuovendo l’attivazione personale. Grimaldi osserva che stiamo svolgendo un lavoro che da un lato è terapeutico e dall’altro educativo. Terapeutico nel senso di individuare le nostre sensazioni e dare loro un significato; educativo nel senso di applicare quello che si impara all’esistenziale, alla vita quotidiana per vivere il proprio benessere. Si osserva che non è facile questo lavoro di percezione ed elaborazione della sensazione in quanto si è abituati a dare una risposta che cerca di far capire all’altro ciò che si vuole ma non ciò che si sente e che si è e ci si aspetta che l’altro capisca.
La risposta di un altro membro del gruppo è stata: “Non sono nervoso, volevo dare soltanto un consiglio”. Grimaldi osserva che è meglio dire suggerimento e/o idea invece di consiglio. C’è infatti una certa differenza nei tre termini: il consiglio è un qualcosa che va seguito; il suggerimento può essere seguito oppure no; l’idea lascia liberi di fare ad ognuno ciò che vuole cosicché l’altro è costretto ad essere se stesso e ad esprimersi. La difficoltà diventa il comunicare all’altro quello che abbiamo sentito e che riguarda solo noi. Quindi non dico all’altro: “Tu mi hai detto una cosa sbagliata” ma si dice: “Mi sorprende quello che dici”. L’altro problema che si verifica spesso è che si finisce per dare una risposta simbiotica che riguarda l’altro. Così un conto è dire: “Non mi piace il tuo tono” un altro è dire “Tu sei un imbecille perché usi quel tono”. L’altro è solo lo stimolo e il fine. Io devo dire all’altro ciò che provo affinché l’altro possa capire quello che ha prodotto; se non lo dico io l’altro come fa a saperlo. Quando non si fa questo processo non c’è rapporto. Io dico ciò che è mio all’altro e l’altro fa lo stesso con me così ognuno esprime se stesso a partire dall’elaborazione del suo sentire. Il percorso è: Fatto-Sensazione-Elaborazione-Pensiero-Comunicazione. Nel sentire, nell’elaborare e nel pensare, l’altro non c’entra niente. L’altro entra quando io comunico ciò che è frutto del mio processo di consapevolezza. Nella elaborazione c’è un misto tra la percezione e il pensiero logico perché il pensiero è una formulazione logica che si attua con le regole della logica. Queste regole non sono presenti nella percezione che è un qualcosa di soggettivo.
L’invidia e la gelosia, attraverso la sensazione, non sono più emozioni ma un’opportunità e uno stimolo per progredire nello stare insieme. La gelosia verso il mio amato/a ritradotto in sensazione significa che farò quanto possibile per non perderlo/a. La gelosia mi indica la paura di perdere la persona amata, e perciò mi comporto bene e in modo conforme a quello che è il mio sentire e farò in modo che l’altro si interessi a me. Generalmente, l’invidia e la gelosia diventano gli elemento di aggressività e a volte di violenza e di ostilità. Quando vengono vissuti contro l’esterno e non come sensazione propria che indica di sé, ma come un vorrei che l’altro fosse. Ricordo che l’invidia e la gelosia sono delle pulsioni primarie e naturali di tutte le persone. Il problema è di passare dal naturale e comune ad una mentalità consapevole. La consapevolezza parte dal desiderio e porta allo sviluppo psichico della persona. La maggioranza delle persone vive queste due pulsioni con il senso della distruttività che non si manifesta più in modo violento ma nella maldicenza. Il maldicente lo fa in modo involontario e abituale, non è consapevole. Attraverso la sensazione si sviluppa l’idea di individuo che è se stesso in quanto sente. Con la sensazione si valorizza l’individualità irripetibile che non si può neppure giudicare perché ognuno è se stesso. Per essere consapevoli si deve cogliere la sensazione per poi applicare il processo di elaborazione del pensiero e l’azione. In questo lavoro si è soli. La difficoltà sta proprio nello sviluppo delle funzioni che permettono di attivare questo processo. Solo così ci si rapporta con l’altro, con il diverso da te. Allora questo diventa un rapportarsi sano, altrimenti più che di rapporto si tratta di comune simbiosi. Una volta sviluppato il percorso si è fuori dalla massa, dal comune sentire e ci si trova da soli. Si impara così a stare soli e si risolve il problema.
Un partecipante chiede se nell’educazione al Senso-nella-Psiche c’è anche il richiamo allo sviluppo della percezione di ciò che si vuole. Grimaldi risponde che la volontà non veniva concepita nella prospettiva del desidero in quanto è la sensazione che dice chi sei tu e che cosa vuoi. La sensazione non puoi prevederla perché è la libera manifestazione di quello che succede in sé e che non conosci. Attraverso la sensazione ti conosci. Una volta determinato il percorso psichico ed arrivati alla formulazione di un pensiero personale, questo va applicato e nell’applicazione c’è la volontà. Non è nel “Volli sempre volli fortissimamente volli” ma la volontà è intesa come la forza che spinge a realizzare il desiderio nella realtà. Non è la realtà che ti favorisce in ciò che desideri. Il desiderio richiede la fatica, il lavoro, lo sforzo, la difficoltà e si può anche non riuscire a realizzare ciò che si vuole. Qui serve la volontà ossia la voglia di perseverare in qualcosa in cui si crede. Con la sensazione si valorizza al massimo l’individuo. Vi è il limite poiché l’individualità non si può trasmettere ma si può soltanto comunicare. E non è detto che l’altro capisce. La trasmissione del senso diventa una propria responsabilità: “Come mi comporto?”, “Come parlo?”, “Che linguaggio uso?”. La responsabilità ci fa rendere conto anche dei limiti che prima venivano concepiti come un fattore negativo mentre oggi diventano un valore. Incontri il tuo limite e sai che oltre a quello non puoi andare. Questo sapere è una fortuna. Ad esempio vai in bicicletta e ti rendi conto che l’altro è più veloce. Allora vai con il Tuo passo e resti tranquillo e non butti la bicicletta e ti godi il tuo giro. In questo modo viene debellata l’invidia negativa e vivi ciò che sei per quello che sei. La sensazione ha bisogno poi di trovare un significato che si traduce in un pensiero. Ad esempio se vivo la curiosità, devo specificare: la curiosità in quale contesto l’ho vissuta e cosa significa per me.
La Dolcetti aggiunge che quando si è sviluppato il Sentire e la coscienza di sé, si ha la responsabilità personale di essere sani. La sensazione psichica non è più soltanto terapeutica ma diventa una modalità esistenziale. Tuttavia se non si ha il senso del limite, che è un elemento positivo e che dà il senso della realtà, si entra in una dimensione paranoide poiché si crede in qualcosa che non si è. Questo vale in qualsiasi campo ed è grave per tutti. Il limite può essere personale ma anche sociale nel senso che io ho una passione a cinquanta anni e magari ci vogliono dieci anni per realizzarla, arrivo a sessanta anni e non faccio più in tempo. Questo va tenuto presente. Senza “limite” non si capisce dove sta il reale. Grimaldi chiede cosa si pensa del limite. Si fa un esempio. Si lavora tutto il giorno, si arriva stanchi a casa, si vorrebbe uscire ma il fisico dà segnali di stanchezza e non si esce. Si vive la frustrazione. Questo è corretto perché c’è il rispetto del proprio limite. Comunemente ci si arrabbia di non potere uscire perché non si riconosce il limite e si segue l’idea. Quando si concepisce la realtà del limite, si afferma che si è stanchi, allora dalla sensazione di frustrazione si passa ad un senso di tranquillità. Quando colgo il reale come limite naturale mi tranquillizzo. Questo è ciò che fa la differenza perché da una parte percepisco il reale e dall’altra il mio desiderio che non corrisponde al reale. In effetti tantissime frustrazioni sono la conseguenza di questo atteggiamento. E’ la stessa frustrazione che ci dà il senso del nostro limite e ci fa cogliere la realtà. Il limite è utile per percepire quello che si può fare.
Viene chiesto da un partecipante se limitarsi nel fare un qualcosa per timore, possa essere considerato un limite. Questo tipo di limite deriva da un proprio pensiero mentre il limite non è un pensiero ma la percezione della reale condizione. Scopriremo così che i limiti sono tanti mentre le nostre capacità sono molto poche. La percezione del limite ha il senso del reale e deve essere una percezione non una idea perché allora è già un artefatto. Tante nostre frustrazioni vengono dalla non percezione esatta del limite. Va fatta una distinzione tra idea del proprio limite e la percezione del proprio limite. La percezione è ciò che io sento mentre il pensiero può anche andare all’infinito e mi può ingannare. Occorre considerare la percezione del proprio limite un qualcosa di positivo perché dà la possibilità di non farsi illusioni è ci pone nella realtà. Una metafora. Se puoi andare con la macchina a non più di cinquanta chilometri orari e vuoi arrivare a sessanta chilometri, arrivare a sessanta diventa la frustrazione che ti fa vivere male la possibilità di raggiungere i cinquanta orari e goderteli. Il limite può anche essere ampliato tuttavia si arriva comunque ad un limite insuperabile. Va bene concepire che il limite per essere riconosciuto, ha bisogno di essere provato, ma è la realtà poi che ci dà il senso del limite. Sapere percepire il proprio limite e riconoscerlo permette di viverlo in positivo poiché ci dice fin dove si può arrivare.
Sul piano economico se sono ricco mi comprerò e/o posso comprarmi una Ferrari; mentre se non sono ricco mi devo accontentare, magari, della cinquecento. Molte persone si rovinano perché non hanno il senso del limite naturale. Ognuno ha il Suo limite. Il limite esiste e se non si concepisce si entra nella paranoia e nella infelicità. La conduttrice solleva una riflessione e dice: “Si può dire che se c’è la percezione di sé si comprende bene e senza drammi quello che è il concetto di limite?” Grimaldi risponde che il problema è di definirsi, di trovare il proprio limite e stare all’interno di questo limite. Ciò permette alla persona di stare bene. Il sentimento che si vive in rapporto al nostro desiderio deve tenere conto comunque del limite perché non c’è niente di umano che non abbia il limite. Il problema è capire qual è il limite proprio e fino a dove posso arrivare. Quando si parla di limite si parla di se stessi ma si parla anche della relazione con la realtà. Molte persone non si godono le proprie possibilità perché non hanno la percezione del proprio limite. L’invidioso, ovvero colui che desidera ciò che non ha, non si pone il problema di come avere la cosa desiderata e se ne ha le possibilità e opportunità reali per averla.
Si passa poi a valutare il concetto di critica. Un partecipante ci racconta che il suo fare/agire viene da lui stesso visto sempre come qualcosa di fatto male e ciò viene vissuto con l’inquietudine. In questo caso il partecipante è critico verso il proprio operato e non si accorge del buono che emerge da quello che fa. Il problema è cambiare il proprio carattere e non vedere soltanto il male. Bisogna concepire il bene di quello che si fa e che si è fatto attraverso il senso di realtà. Occorre sviluppare tutte queste perché non le insegna nessuno.
Spesse volte ci confrontiamo con gli altri. Sul tema del confronto ricordo un aneddoto relativo alla pittura e al dipingere. Lui ha fatto i suoi quadri con un certo risultato e non si confronta con la moglie che ha una capacità artistica molto superiore alla sua. Così evita il confronto, si gode quello che ha fatto e sta tranquillo. Quando ci si confronta si è in un atteggiamento di paragone e non si è nella nostra individualità, né si riconosce la capacità e il nostro limite. L’altro aspetto inquietante è quello della pretesa, di colui che pretende di essere qualcosa che non può essere. E’ necessario avere la capacità di riconoscere le proprie qualità. Confrontarsi con gli altri è veramente la cosa più inutile che si possa fare. Spesso l’insoddisfazione nasce dalla mancata capacità di riconoscere il proprio reale. E’ la nostra percezione che ci fa vivere bene e/o male il limite, il riconoscere l’altro che riesce bene o male in una determinata realtà. Il limite è intrinseco nella realtà. Il problema è riconoscerlo. L’illusione ci porta al malessere. Riconoscere il proprio limite è un fatto positivo, significa che oltre a quello non posso andare. Allora faccio un qualcosa perché mi piace ed il piacere di fare mi crea soddisfazione. La percezione interna è il sentirsi e dà il senso della stabilità. Nel sentirsi si è soli e, compiuto l’attraversamento della grande acqua, si può fare un uso cosciente di se stessi. Ora la psiche è libera e di conseguenza responsabile delle proprie azioni.
Grimaldi aggiunge che il problema è la percezione non il ragionamento. La percezione è ciò che colgo in me e quello che si percepisce è la sensazione. La percezione è la funzione; la sensazione è l’origine, l’inizio in noi di ciò che è reale. Si può dire che la percezione è il Dio personale, e il Sé è la coscienza. La sensazione dà il senso dell’IO chi sono in quel momento e in un dato contesto reale, poi attraverso l’Elaborazione si arriva al concetto, alla coscienza della sensazione ed è così che si diventa consapevoli di se stessi. La sensazione dà anche il senso di realtà perché io sono ciò che sento. Questo è il reale. La sensazione vissuta interiormente permette di vivere in modo tranquillo perché evita la delusione, l’illusione, il confronto e/o il paragone. Così si vive quello che si è in base a ciò che si può e per quello che si è. Il limite è un dato naturale. Confonde il limite concepito come il dato culturale che non fa rendere conto del reale che esiste. Anche la condizione economica è un dato di realtà: sono i mezzi che io ho per realizzare me stesso. Allora nasce il desiderio di averne di più per realizzarsi. Questo è legittimo.
Quanto al concetto di limite nella relazione con l’altro, si afferma che la relazione è già un limite in quanto nella relazione non si è assoluti ma si è relativi. La mia decisione non può essere più soltanto la mia ma si relativizza con l’altro. Quando si è insieme e si pensa di poter fare quello che voglio io c’è la prevaricazione. Nella relazione con l’altro si perde la libertà e l’assoluto e si entra nel relativo. L’uomo ha l’esigenza di stare in relazione ma anche l’esigenza di stare solo. Serve un equilibrio. L’essere umano non può stare isolato. Il Solo è una situazione temporanea poi l’individuo entra in relazione con il mondo e con l’altro e da qui nasce l’esigenza del come stare insieme. Il senso del reale esce dall’ideale perché il reale si rapporta con un elemento fattivo. E’ importante rendersi conto di chi si è e del reale perché spesse volte il reale sfugge e si incolpa l’altro che ci fa da verifica del nostro reale, e si diventa paranoici. Solo facendo si coglie il proprio limite. Riconoscere il proprio limite dà il senso della serenità. Significa riconoscere chi si è e richiede la capacità della distinzione e della differenziazione dall’altro. Il soggetto libero sviluppa quello che è lui in potenza. Le potenzialità le sviluppiamo in funzione del nostro allenamento, di come ci si comporta e di chi si è. Grimaldi osserva che il limite è quello che si percepisce meno. Quando ciò avviene si dà all’altro il riconoscimento del nostro limite e l’altro diventa perciò oggetto della mia aggressività. Anche il fatto del superamento del limite va tenuto in considerazione. Io posso avere la credenza che però non corrisponde alla realtà riguardo al superamento del mio limite. Bisogna assumersi la responsabilità di come si indica il proprio limite all’altro soprattutto dal punto di vista affettivo. In genere riconosciamo con difficoltà ciò che di se stessi non piace: il mio limite. La relazione serve a relativizzarci ossia a farci rendere conto di come si è e di chi si è. Chi non si relaziona crede di essere un Dio onnipotente.
La Dolcetti parla poi dello stato di non comprensione della sofferenza come indicazione interna di un equilibrio interrotto. Quando la persona lamenta un malessere e lo sposta nell’ambiente esterno non lo comprende. Sposta la Sua attenzione all’esterno non curandosi dei segnali che gli arrivano dall’interno e che bisogna considerare. Occorre definirsi e la definizione la si fa partendo dalla sensazione che indica subito in che momento e in quale sede si è instaurato l’elemento perturbatore. La sensazione è l’unica realtà, la prima azione agli avvenimenti che si vivono, dopo si segue il percorso e si educa a sviluppare le funzioni psichiche. Il tentativo di deviare l’attenzione da questi errori può avere radici nello stato più profondo in cui, non avendo sperimentato l’esistenza di un processo conoscitivo, si genera un senso di ansia e/o di panico e il soggetto rimane bloccato. Mentre con il sistema di M. Liebl c’è una ricerca del Sé in atto. Per definire qualcosa bisogna partire dalla certezza. L’unica certezza che si ha è quella che si sente perché ciò che io sento è anche ciò che sono. Quando si parla di sentire non si parla di un qualcosa che è spontaneo, automatico e che avviene per conto suo ma si afferma che il processo richiede un’educazione. Una volta che si riesce a percepire Chi Si è in un certo momento e in una certa situazione, quello che ci dice l’altro può soltanto aiutare a definirci meglio ma non può mai dire chi siamo. L’unica certezza è nella percezione; in ciò che si sente. Naturalmente ciò che sento non è sempre piacevole. Quello che sento può essere piacevole e/o spiacevole. Il vero coraggio è conoscere lo spiacevole che è in sé, il limite, ciò che sono e non mi piace, gli errori che commetto, il pregiudizio che ho, il giudizio sbagliato che ho dato della realtà. Il riconoscimento del proprio errore fa cogliere il limite personale e permette di correggerci. Il vantaggio di riuscire a percepirsi è che ci permette di sviluppare ciò che manca. Lo sviluppo è comunque sempre relativo alla potenzialità personale.
Pochissime persone riconoscono i propri limiti!! Senza definizione si è in balia dell’altro e del giudizio altrui. Se già sai chi sei, il giudizio altrui lo valuti per quello che è. Ricordiamo che il giudizio è una definizione dell’altro a partire da una sua idea e non da una considerazione o da una comprensione oggettiva che si fa dell’altro. L’unicità si può godere solo in quello che sento che sento non può essere suggerito da altri, lo posso sapere solo io. Se io sono allenato e capace di cogliere chi sono veramente allora vi è l’autenticità del mio sentire. Ciò che si è e che si vuole essere spesso sfugge perché si è abituati a percepirsi in funzione del mondo in cui viviamo e non in funzione di quello che si sente. Con la definizione di se stesso c’è anche la distinzione con l’altro: “IO-sono-IO” e l’Altro-rimane-l’Altro. Non sono IO-con l’Altro. IO e l’Altro separati è la rivoluzione culturale, è concepirsi per come si è. Concepirsi “solo” è un grande passo avanti. Questo permette lo sviluppo di entrambi i soggetti nella relazione. Nella simbiosi non si riconosce il limite, non si riconosce chi sono io e chi è l’altro, non si riconosce chi sono io e dove si è e l’altro è un mistero etc. Il problema è come uscire dalla simbiosi e diventare individui. Individuo significa capire che si è soli. L’essere solo è ciò che non si sa vivere perché si è sempre nella compagnia, nell’amicizia, nell’amore, nella famiglia. In una condizione di questo tipo l’Essere-Solo viene concepito dall’individuo come malessere mentre è una condizione di naturale necessità. Prima del matrimonio ad esempio, o di qualsiasi unione, bisogna avere il periodo della solitudine come educazione. Anche gli amici sono “il sostituto” di un affettività perduta perché l’amicizia è consolatoria. Uscire dalla simbiosi e riconoscere il proprio limite significa maturare perché la maturità è appunto riconoscere se stessi, chi si è e come si vive. Se voglio una certa cosa e l’altro dice no alla mia richiesta e per questo mi arrabbio, significa che non riconosco il limite, non riconosco l’altro e non riconosco che l’altro può essere diverso da me. In genere in questa occasione ci si arrabbia e si comincia ad andare contro l’altro che è diverso da noi.

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