Educarsi all’Amare

27 Novembre 2024

Educarsi all’amare
L’amare va inteso come attivazione e coscienza di sé; la modalità nella quale vivere l’attivazione. Amare non si riferisce all’altro ma alla condizione costitutiva dell’uomo. Nell’amare personale c’è anche il bisogno di uscire fuori dal sé e rapportarsi con l’altro per la dimensione vitale. Il destino non esiste è un’invenzione, è un modo di definire ciò che succede e che non dipende dall’uomo. A volte il destino è fuggire la responsabilità. Essere artefici del proprio destino significa che ho la responsabilità di quello che mi succede. E questo non è il destino come esterno e magico ma è riportare il destino all’uomo al fine di capire il perché si agisce in un certo modo. Il destino visto come esterno non ci permette di cambiare ma ci lascia in una posizione di vittima destinata a morire.
Sul tema della temporalità in questo corso si è partiti dal punto di vista culturale; da un tempo in cui la coppia non esisteva, né esisteva l’individualità. La metafora è quella del Re di Francia del 1800. Questi non stava mai solo neppure nel momento dei bisogni intimi. Poi con l’industrializzazione si è sviluppato il senso dell’individualità e l’individuo è venuto in primo piano fino all’esaltazione dell’individualità stessa che però ha portato ad una forte confusione. La relazione viene concepita come un noi, un essere in due e ci si domanda come porre l’IO nella relazione. Occorre che la persona sia autonoma, capace di vivere la propria vita, altrimenti si entra nella dimensione simbiotica con l’altro, nella negazione della persona, della soggettività e della individualità. Per persona consapevole si intende la persona capace di riconoscere i propri bisogni e la relazione stessa diventa un proprio bisogno. La metafora: Io vado al ristorante non perché esiste ma perché ho fame, implica il senso di responsabilità. Nel caso del ristorante, ho la responsabilità di dover sapere cosa voglio mangiare e anche la responsabilità di prendere ciò che mi danno in funzione di quello che sento. Ricordiamo che un tempo la famiglia determinava la coppia, oggi è la coppia a determinare la famiglia. Un tempo i matrimoni erano combinati in funzione della decisione dei genitori anche se vigeva la regola che ci voleva comunque una certa conoscenza dei promessi sposi di alcuni anni, il fidanzamento. Oggi il matrimonio è diventato una decisione presa dall’individuo. Le persone, per poter stare insieme, devono conoscere i loro sentimenti e cogliere la possibilità che vi sia una affinità. L’essere-coppia implica la coscienza di ciò che voglio e il bisogno della relazione. Fino ad oggi si è stati educati a concepire la relazione in funzione dell’altro e a vedere i nostri bisogni e desideri in funzione dell’altro. La coppia è una costruzione e la costruzione richiede la partecipazione di entrambi i soggetti. Oggi ancora si parla di protezione e di sicurezza sociale; due elementi che non sono più attuali. La simbiosi si ha quando un soggetto cerca l’altro non per stabilire una relazione ma per stare insieme e non stare da solo. Oggi la convivenza è diventata un surrogato di una responsabilità che si vuole evitare. Lo stare insieme in relazione richiede un cambiamento ed occorre anche la giusta distanza. Bisogna che l’altro, così come noi per l’altro, ha un suo mondo, i suoi interessi, le sue amicizie.
Oggi si vivono i rapporti come un qualcosa che viene consumato e questo accade perché non si ha il senso della persona ma quello del consumo. Si è pertanto nella dimensione dello sfruttamento e dell’inganno. Il rapporto per avere il suo valore ha bisogno di contenuti; le regole e la relazione comporta anche che il soggetto metta in crisi alcuni dei suoi principi. Il problema di oggi nelle coppie è che per libertà si intende: “faccio ciò che voglio”. Così nessuna coppia può costruirsi. L’innamoramento, che viene soprattutto in età giovanile e in modo intenso, ha la funzione di permettere di superare la paura dell’altro, del diverso che non si conosce. Un tempo si passava dalla conoscenza alla sessualità oggi si ha prima la sessualità poi viene, se viene, la relazione. Quello che manca nella nostra società è il senso del reale e si continua invece a vivere nell’ ideale. Quando osserviamo espressioni come: “Mi piacerebbe andare al cinema in compagnia” notiamo che l’errore sta nel mi piacerebbe. Il dire mi piacerebbe è al condizionale e al futuro e manca la sensazione. Così diventa simbiotico mentre è corretto: “Sono solo, mi annoio e desidero compagnia”. Questo è presente a se stesso. Il desiderio è un fatto percettivo non una cosa pensata. Vivere l’individualità e allo stesso tempo relazionarsi comporta di necessità delle regole: una morale ed un’etica. Ancora oggi si vive l’obbligo, si vivono le regole ma non vengono né concepite, né comprese. Osserviamo che l’autonomia: l’essere e sapere stare solo, fino a che non si è conseguita, spaventa l’individuo e per questo molti restano nella simbiosi. La separazione e distinzione IO – TU richiede che il soggetto sia capace di stare solo e viversi bene lo stare solo. Il passaggio di stato dalla simbiosi all’essere solo è per certi versi tragico. Tragico è ad esempio il momento di cambiamento nella coppia che si separa, quando il coniuge, la madre o il padre muore. La simbiosi è un occultamento dell’incapacità di sviluppare la propria personalità. C’è da dire che non esiste l’individualista che possa vivere solo il se stesso poiché c’è l’esigenza naturale che porta all’incontro con l’altro. L’Essere Solo è una condizione che fa vivere il limite stesso nell’essere solo e porta alla ricerca dell’altro. Occorre, però, essere capace di andare all’altro senza voler far tutti e due le stesse cose: essere un cuore e una capanna ma bensì due cuori e due capanne. Poi ci si mette insieme. La simbiosi prima ancora di essere un fatto oggettivo e fisico è un atteggiamento psicologico. Ad esempio quello che sta solo e pensa all’amico o all’amica non sa riflettere e si trova in una forma di simbiosi. Il rapporto con l’altro è un rapporto con uno sconosciuto; mentre nell’innamoramento siamo simili e facciamo tutto insieme. Questa è una specie di follia perché si programma il futuro a partire da un’illusione che nell’innamoramento è un alterazione della capacità percettiva. Anche la sessualità oggi viene vissuta diversamente rispetto al tempo passato. Addirittura si parla di “sesso” come qualcosa di scollegato dalla persona e dalla personalità, la funzione fisiologica che bisogna soddisfare. In questo senso abbiamo il consumo della sessualità.
Un tempo il sesso era collegato all’interno di tutta la personalità: al carattere, al sentimento, alla relazione, alla conoscenza. La sessualità completava l’incontro con l’altra persona e il rapporto era visto come un qualcosa che aveva una finalità. Oggi, soprattutto negli adolescenti, il rapporto è fine a se stesso: viene soddisfatto un singolo episodio, la sessualità e li si finisce. La sessualità è stata individualizzata ed estraniata dal sentimento. Oltretutto il sentimento richiede una maturità e un’esperienza nonché una gradualità. Lo psicodramma serve a mettere in luce questi aspetti secondo la spontaneità invece della concettualizzazione.
Sul tema della sofferenza: affermiamo che essa è una componente esistenziale della vita, il segnale che ci aiuta a capire; diventa tragedia quando è disperazione e quando si perde il senso della direzione. Ci si proietta l’idea di vivere una vita felice e non ci si accorge che la sofferenza esiste ed è una componente propria della vita. Il punto è come viverla e che senso darle. Anche la sofferenza dà il senso della vita quindi non si parla di sofferenza negativa o positiva ma di un elemento costitutivo della realtà. La relazione è una entità in sé, fondamentale per farci scoprire ciò che da soli non possiamo scoprire. È una realtà fondamentale e in essa si vive il dato oggettivo: l’altro è un mistero qualcosa che non si conosce. L’altro, come noi per l’altro, essendo un elemento dinamico cambia e come tale non si può conoscerlo. Si può intuire ma l’intuizione non ci può dare comunque la certezza di quello che l’altro è. Concepire l’altro come un mistero fa stare più tranquilli; non conoscendolo non si deve immaginare quello che pensa o che fa, etc. Questo richiede che nella relazione ci deve essere la comunicazione e l’ascolto; di questo si è responsabili. Tra due persone che si incontrano e sviluppano l’affettività, il sentimento importante è la fiducia. In caso contrario si ha il sospetto, l’interpretazione negativa e il non sentirsi mai all’interno del rapporto. Bisogna essere capaci di dare fiducia e quando la si dà si corre il rischio della frustrazione della non fiducia e del tradimento della propria fiducia. Questo vale nei rapporti affettivi ma anche in quelli di amicizia.
La fiducia è un sentimento proprio, l’altro non c’entra; è un modo di essere della persona che si pone in relazione. La fiducia si acquisisce quando si è capaci di vivere da soli e di sopportare la frustrazione della non fiducia e/o del tradimento della stessa. Per far questo devi essere capace di vivere il tuo essere-solo. Allora soffri ma non arrivi alla disperazione perché si è nella dimensione dell’Essere e dell’Esserci che è più importante rispetto alla coppia. La coppia ti rende completo nell’accezione esistenziale, emotiva, ma tu sei comunque e sempre il fondamento di te stesso. Ancora non si è sviluppato bene come si vive in due. La fiducia bisogna anche sapersela conquistare e vi deve esserci corrispondenza. La fiducia nella relazione significa ad esempio che se si stabilisce un patto questo venga rispettato. Oggi la fiducia è portare a conoscenza il sentimento all’interno della relazione. E. Erickson diceva che il sentimento di fiducia si sviluppa nel primo anno di età nel rapporto con la madre. Una volta che ci si rende conto della propria sfiducia sorge il problema ma anche la possibilità della propria auto-affermazione. Dopo l’infanzia, la fiducia in sé si acquista lentamente attraverso il successo delle proprie azioni. Chi ha fede instaura rapporti che hanno il senso del calore, della disponibilità e dell’andare verso. Chi non ha fiducia ha sempre il timore, l’accusa, il pregiudizio. Diventa difficile per chi non ha fede instaurare un rapporto d’amore. Tante persone che non hanno fede infatti non riescono ad amare. Avere fede è fondamentale per amare. Il fondamento dell’amore è la fede; la fiducia, come tutte le cose belle, è fragile e può essere tradita in qualunque momento, da chiunque. Tuttavia se non si corre il rischio non si vive l’amore. Occorre separare il fatto e la persona esterna da quello che si sente. L’evento non ci travolge anche se non ci lascia indifferenti.
Il tema della morte tratta all’oggi un discorso universale. Oggi che si è senza religione e senza credenze si è emarginato la morte e non ci si rapporta più con essa attraverso il pensiero magico ma con il reale e la realtà fa male. Ma se la morte viene emarginata si crea un vuoto nella nostra vita e nella nostra memoria e non ci rendiamo conto che il sentimento verso il mondo esiste, è vivo e rimane con noi. Quello che ci fa soffrire nella morte è la perdita della soggettività. Il soggetto che muore non c’è più e il morto vive nella soggettività di chi resta. Diceva Epicuro: Quando tu muori non te ne accorgi e la sofferenza è di chi rimane perché ha l’affettività verso il morto. Ai funerali si osserva che coloro che accompagnano i familiari accompagnano i loro cari e non il morto. A volte si può notare che la gente non è poi così triste e non lo è perché la morte non ha toccato loro ma ha toccato l’altro, il diverso da sé. Si fa fatica a concepire il sentimento verso il morto. In realtà per i vivi l’oggetto muore ma il sentimento resta. La morte come dimensione psicologica non va collocata in una morte fisica e oggettiva ma piuttosto in una morte soggettiva ossia io sento qualcosa che muore in me e allora ha un senso. La morte ha un valore per chi rimane in vita. Attraverso il culto dei morti si rivive del morto l’affettività e il culto dei morti non è altro che la proiezione della nostra affettività verso chi non c’è più. Questo dà il senso di una morte che ci rimanda alla vita e di una morte che non ha una conseguenza nel modo di vivere. Non elaborare la morte significa rimanere fissati all’oggetto e continuare a far vivere in noi ciò che non c’è e così non si fa vivere il proprio sentimento. Si ha la consapevolezza della morte quando si comprende che il sentimento non può essere più vissuto verso l’oggetto, si ritira da esso, e ci si riappropria del sentimento, si soffre e lo si rinnova. Il dolore in questo caso è il vero bisogno che non è soddisfatto, non è realizzato, e non trova più corrispondenza nell’oggetto. Poi incontro un altro oggetto e allora diventa una nuova relazione. Osserviamo che il ricordo non è la realtà e occorre sviluppare la capacità di dare senso alla memoria di chi non c’è più. Il senso di quello che si percepisce è personale, unico e momentaneo. La Dolcetti espone il concetto di morte-psichica come una modalità proiettiva del vivere. Per risvegliarsi dalla morte apparente la psiche necessita di una scintilla vitale che è lo stimolo che va cercato per la propria salvazione. Quando la proiezione è fissa diventa un modo di rapporto in uno stato di bisogno, di sofferenza, di disagio, di disorientamento, di insicurezza che porta all’atrofia.
Occorre lavorare per trovare il senso di sé e un nuovo modo di vivere. La condizione per arrivare alla realtà è il presente. Un’altra osservazione fatta dalla Dolcetti è sul come mai si ha sempre il senso della perdita. Questo avviene perché quando c’è qualcosa che turba spesso ci si sposta dallo status attuale e si tende a conservare lo status precedente come fosse il migliore. Quando si acquisisce la coscienza di sé si modifica per forza qualcosa e si passa da uno stato di caos e contaminazione ad uno stato ordinato e per questo si deve passare attraverso un processo di scelta. Questa è un’altra dimensione umana e uno stato di percezione del proprio essere. Il conduttore sollecita la riflessione sul come mai facciamo il rituale della morte. Tale rituale si fa e si faceva per chi rimane e non per il morto. La morte infatti è la trasformazione di chi rimane in vita e comporta la mancanza dell’affettività del morto; un qualcosa di sostanziale per cui è necessaria una ristrutturazione della realtà. Per questo che c’è tutto il rituale. Il senso della morte ci porta in continuazione alla vita. Noi a questo spesso non ci pensiamo e consideriamo la morte come il cambiamento totale che ci lascia indifferenti. In realtà così non è. Ecco perché si è inventato il rito dei morti e il giorno dei morti. Il nostro sentimento ha bisogno di una ritualità e di una manifestazione. Il culto dei morti è venuto ancora prima della religione cristiana. La religione si fonda sul magico che è fondamentale per vivere. Il magico è tutto ciò che non spieghi logicamente. Ecco la necessità del pensiero magico correlato alla religione. Ma il rapporto con il mondo interno non lo si può fare con la ragione. Solo con la ragione non si può comprendere e si deve sviluppare un’altra funzione che è pur sempre naturale ed è la percezione. La percezione differisce dalla ragione. La percezione è una funzione che mette in rapporto con l’interno mentre la ragione mette in rapporto con l’esterno. Il punto essenziale è di sviluppare tutte e due sia la percezione che la ragione mentre noi abbiamo un’educazione solo per la ragione. Rapportarci con ciò che percepiamo ci mette in rapporto con la nostra realtà e verità personale. Il pensare non significa realtà e questo è il senso del qui ed ora (l’hic et nunc) per cui la Sensazione è quello che sei in quel momento. Devi ascoltarti e solo ascoltandoti capisci la realtà con la percezione della sensazione.
Avere recuperato il sentimento d’amore ci commuove in quanto ci salva dalla schizofrenia. Schizofrenico è colui che non ha un’identità e/o cambia continuamente identità. E’ colui che non ha il senso di sé e della realtà. Quando cognitivo e affettivo vengono a coincidere c’è la commozione. Il mondo esterno si definisce con una proiezione e questo è quello che non funziona. Il mondo va definito per quello che è. Per definirlo con precisione, prima si deve definire il se stesso. Una volta che ho definito me stesso tolgo la proiezione e vedo ciò che è reale. Il primo dato è il reale! Apro la finestra di casa e vedo il sole; questo è il dato reale. Comunemente giudichiamo ciò che immediatamente vediamo e diciamo che il sole è bello. Il bello è un giudizio. L’educazione del sentire tradotta nell’esempio è: vedo il sole, è di colore rosso e percepisco che cosa mi suscita. Ad esempio gioia. Allora mi devo chiedere che cosa significa gioia per me. Significa che mi piace il sole. Mi permette di andare a fare il bagno al mare che desideravo fare.
Si dice di solito: “E’ una bella giornata”. In tal caso non stiamo osservando ma diamo un giudizio. Corretto è: “La giornata come la vivo?”. Questi sono tutti i passaggi che sembrano banali ma in realtà non sono educati nella nostra psiche e ci vuole molto tempo per imparare a farlo. Una volta imparato e sviluppato questo atteggiamento psichico può capitare che non ti capisci con chi non ha la tua stessa condizione. Il fatto rimane un fattore esterno: è dalla sensazione che inizia il processo interno che è solo nostro e il fatto non c’entra più. Poi si passa alla comunicazione e questa è la nostra azione che è sempre nostra. Si può anche dare un “giudizio” sul fatto che è sempre una cosa nostra, ma non riguarda la nostra interiorità.
Una osservazione personale. Il nobile veniva educato all’individualità, alla separazione e ad un certo sentirsi superiore. Il contadino veniva educato a credere ad un signore, e alla sua non valorizzazione. Il cattolico ha avuto il valore per mezzo della proiezione fisiologica che è Dio da cui poi dipende tutta la dimensione reale. Il nostro gruppo valorizza l’uomo in sé e quello che l’uomo sente. Questo è dare dignità e parità all’uomo. Il Cristo cattolico è il Cristo che toglie i peccati agli altri e non dà la responsabilità del proprio agire per cui ognuno deve diventare Cristo di se stesso. Cristo sarebbe un esempio e si tratterebbe di Cristo protestante e non di un Cristo cattolico. Per questo noi parliamo di educazione e di limite anche a livello di relazione umana. Nella relazione possiamo arrivare fino a un certo limite e non oltre. Non posso dire all’altro ciò che l’altro sente perché questo è impossibile. La sensazione è nel hic et nunc e consegna il sé a se stessi nel tempo. Questo è lo Zen occidentale.
La rivoluzione avviene perché l’uomo incomincia a concepire il suo sentimento e lo manifesta. Senza la fiducia non esiste l’amore che è fede e la fede è fidarsi. Non c’è un motivo per cui mi devo fidare: la fede è un modo di essere. Tra due persone l’amore come fede non si può basare su nulla di concreto; è un sentimento allo stato puro, c’è o non c’è e si può solo tradire oppure onorare. Un tempo l’azione dell’uomo veniva dettata dal mito di Dio: era sempre l’evento esterno che condizionava e influenzava la condotta dell’uomo. Col cristianesimo questa modalità cambia e l’uomo con l’amore, con la sua condizione interna, è lui che condiziona la sua vita. Questa è la rivoluzione. Oggi si ha la coscienza del sentimento ed è per questo che si è cristiani. La prima percezione è la sensazione e si passa poi al pensiero. Il pensiero si traduce in un’idea. Il passaggio dalla sensazione all’idea non ci dà la realtà totale ma parzializza l’esperienza. Quando si arriva al pensiero a partire dalla sensazione si deve mettere in pratica il pensiero attraverso l’azione. La concretezza non è nel pensiero ma nell’azione che esprime il pensiero. Il confronto in un rapporto è impossibile, è un fondarsi sull’altro ossia una proiezione. Ognuno di noi esprime le sue sensazioni in riferimento al sogno della partecipante per poi dare il significato alle sensazioni stesse. Si può cogliere il limite dovuto al fatto che non posso sapere quello che l’altro pensa del mio lavoro svolto. Non si parla di impotenza che è un termine improprio per questo e che significa non potenzialità. Ciò che l’altro pensa, per me, è impossibile da sapere e questo è un dato di realtà. Non è quindi una impossibilità o una impotenza ma bensì è riconoscere la realtà: l’altro è diverso ed io non so cosa pensa a meno che l’altro non me lo comunichi. Si ha invece la tendenza a cercare di capire che cosa l’altro pensa e siccome non ci si riesce ce lo inventiamo. Cercare di sapere quello che l’altro pensa è un atteggiamento proiettivo e la proiezione non dà alcun risultato, diventa una alterazione dello stato di realtà. Ora, alle sensazioni della partecipante bisogna dare il significato.Alla domanda: cos’è un confronto? Rispondiamo che il confronto è come la bottiglia piccola e la bottiglia grande che non si possono confrontare. Il confronto è fuori dalla realtà. Non esistono due persone che si possono confrontare neanche fisicamente, con l’oggettività corporea. Tanto meno può esserci confronto su quello che due individui sentono e pensano. Quando sentiamo dire anche da un giornalista, che c’è stato un confronto acceso questo è fuori dalla realtà. Si è educati a questo perché non si tiene conto dell’interno e della soggettività. In pratica non ci possiamo conoscere mai per intero ed è questo il dato comune. La Chiesa Cattolica per questo ha una grande responsabilità in quanto ha fatto confrontare le persone sempre in relazione ad una idealità negando la loro soggettività. In Italia l’educazione alla soggettività non esiste! Nelle altre nazioni soprattutto in quelle protestanti la soggettività è presa più in considerazione perché hanno sviluppato il senso del rapporto personale con Dio che è diventato: l’IO-persona. Il metafisico è scomparso. Nella generalità delle persone manca la capacità di ascoltare per cui si crede che quello che l’altro dice sia uguale a quello che si ascolta. Lo si sente in contrasto invece di percepirlo semplicemente come diverso; e diverso non è in contrasto, è solo diverso. Nelle diversità invece di trovare come diceva Platone, attraverso il dialogo un punto in comune, andiamo allo scontro. In realtà quello che penso io non è uguale a quello che pensa l’altro. Da qui si fanno sempre discussioni. Lo scontro non è il dialogo. Il dialogo si deve intendere come altra cosa e si deve vedere se si è capaci di dialogare.
In riferimento all’angoscia ci chiediamo da che cosa nasce l’angoscia. Nasce dal fatto che ci si rammarica per il passato e si vuole cambiarlo ma questo non può essere fatto. Il futuro è ciò che non esiste invece noi lo vorremmo già definito. Dobbiamo imparare a vivere il qui ed ora con tutto quello che comporta, compresa l’inquietudine. Posso immaginare il futuro, posso avere la speranza nel futuro ma so che è solo speranza e devo saperlo. Immaginare è una possibilità. Se si immagina il futuro come dato reale non si vive il presente e si entra in una dimensione dissociativa. L’Avvenire è ciò che verrà. Ci si deve rapportare con il futuro e con l’avvenire a partire dal dato reale di oggi. L’avvenire esiste ma in quanto io oggi sono una potenzialità rispetto ad esso. Quando diventa IO che… il futuro diventa realtà in base a quello che sono oggi. Nell’avvenire c’è il senso del limite anche se spesso non ci si rende conto di questa realtà rimanendo nell’onnipotenza infantile. Si crede che si possa far tutto come se tutto fosse nelle nostre possibilità mentre in realtà possiamo fare ben poco. Altro aspetto fondamentale è la unidirezionalità della vita e non si può tornare indietro. Magari si potesse rifare il passato ma così non è ed è qui il senso della responsabilità di ciò che io faccio nell’oggi. Il ritorno indietro nella vita non è mai possibile e spesso nel quotidiano questo sfugge. Non si può riavvolgere il nastro e fare un nuovo film.
Analizziamo la tematica della simbiosi. Ci sono due tipi di simbiosi, una quando non si fa la separazione con l’altro ed una quando il soggetto sta da solo ed ha il TU dentro di sé. Quindi una simbiosi esterna e una simbiosi intrapsichica. Si è abituati a fare simbiosi di continuo. È così che emergono le ipotesi, le speranze, le invenzioni, i possibilismi, le astrazioni, le previsioni e si dimentica di vigilare il presente. A proposito di questo Grimaldi racconta un aneddoto personale. Per lui, un tempo, l’imprevisto era un qualcosa di negativo vissuto con grande rabbia, poi con il metodo dell’Educazione alla Coscienza di Sé, l’imprevisto è diventato la possibilità di cambiare la propria direzione; è diventato un’opportunità. Sulla nota sollevata da un partecipante circa il valore del progettare si osserva che il progetto è la proiezione di quello che si vuole in funzione della realtà. Dire “Vorrei” non è corretto; corretto è dire oggi-voglio in quanto il progetto è di oggi e il diventerò non esiste. Oggi ho il desiderio che comporta un lavoro per essere realizzato. Con una metafora si può dire che si mangia quando si ha fame ed è la sensazione che ci dà il senso della realtà e non quello che si pensa. Il verbo al condizionale è un verbo che non è il presente. Il verbo reale è quello indicativo. Un conto è dire “io voglio” un conto è dire “io vorrei” perché nell’ “io voglio” devo poi verificare se quella cosa ce l’ho: se non ce l’ho devo riflettere su cosa posso fare per averla. Nel “vorrei” tutto questo non c’è. Possono sembrare precisazioni banali ma spesse volte l’angoscia dipende da questa mentalità. Si ribadisce che io voglio è ciò che si sente adesso, mentre l’io vorrei è ciò che può darsi che io voglia, ma con certezza non si sa. Queste differenze vanno colte per cambiare. La Conduttrice aggiunge che: quando ci si sposta nella zona simbiotica, la percezione della realtà diminuisce e finisce che ciò che si crede non è più così certo. C’è pertanto una commistione e niente è più autentico. Purtroppo si ha ancora questa struttura dell’uguaglianza e l’uguaglianza diventa simbiosi perché della diversità si ha paura. Basti pensare a quante persone vivono bene l’essere-solo. In realtà sono pochissime. L’essere-solo diventa una tragedia quando manca l’amico/a, il ragazzo/a perché non sappiamo gestire l’essere-solo. Oggi questo problema è presente più nel femminile che nel maschile. La Dolcetti osserva che nel rapporto di mescolanza con il fuori bisogna attuare la separazione tra l’IO e il TU e pensare a ciò che si sente. Grimaldi osserva che se si pensa al concetto di S. Freud si osserva che Freud ha colto un aspetto del fenomeno importante. Il bambino introietta, imita, copia e quindi fa solo quello che vede fuori, lo ripete e si comporta come tale. Tutto questo è fisiologico. Non parliamo di imprinting in quanto l’imprinting si riferisce più al comportamento al livello animale ed è un quid che non cambia più. Questo non cambiare più nell’uomo è difficile da affermare. Rispetto all’animale l’uomo è più plastico e come diceva Freud, si ha l’introiezione di elementi che dal mondo esterno, dall’ambiente familiare, entrano dentro di noi. Il problema è che ne facciamo di tutti questi elementi esterni, che poi rimangono.
Ecco l’importanza del senso e della meraviglia di trovare in noi comportamenti uguali ai nostri genitori. Ci chiediamo come mai! E’ difficilissimo cogliere quanto è stato introiettato da piccolo. Si può cogliere ciò che si è introiettato solo attraverso la sensazione. Con la sensazione possiamo vedere la nostra realtà attuale e con essa si ha il senso della nostra vita in quel momento e lo possiamo rapportare con il nostro passato e con la realtà che ci circonda. Con la sensazione si vede la nostra attualità e si ha la sintesi in quel momento della nostra totalità. La totalità non può essere percepita tutta in una volta ma soltanto momento per momento. Avendo coscienza della realtà la elaboro, ne colgo il significato e faccio un progetto che diventa azione. Fatto ciò non si può che ritenersi Solo perché quello che si sente è solo tuo. Da qui nasce anche la responsabilità di quello che tu sei. Se non ti piace ciò che fai e quello che sei per cambiare devi ripartire dall’origine. Questo è difficile. Ricordiamo Giulietta e Romeo dove l’uno si suicida per la morte dell’altro. Ci troviamo di fronte ad una dimensione patologica: Io mi identifico con l’altro e senza il suo amore, senza chi amo non posso vivere. Questa è la totale negazione del se stesso. Il rito della proiezione implica che il soggetto deve essere si capace di amare ma anche sviluppare la capacità che non ha e che porta al bisogno dell’altro come fanno i bambini, nel riconoscimento che per realizzare il mio bisogno di umano mi occorre l’altro. Questo lo ritroviamo, ad esempio, nel senso della paternità e della maternità consapevole che poi non è altro che il senso della continuità della vita. Quando si sentono canzoni in cui testi dicono senza di te non posso vivere si è nella proiezione non fisiologica, ma patologica perché vedo me stesso e la mia vita nell’altro. La vita va intesa si come amore ma l’amore nasce dall’ “IO-SONO”, la percezione consapevole della mia esistenza. Quando comincio ad essere consapevole devo sapere chi sono e chiedermi come voglio essere nel mondo. Il mondo esiste non perché è bello e/o brutto ma perché IO del Mondo ho bisogno. Allora mi devo porre il problema di essere nel mondo per realizzare ciò di cui ho bisogno. In questo modo l’amore acquista un senso di concretezza e di realtà e la morte acquista il senso della non consapevolezza di chi sono e di cosa voglio. Questa è la vera “morte”: il non sapere chi sono e cosa voglio, fare le cose per caso e fare le cose indotte dall’esterno, ad esempio dalla pubblicità oppure seguire i falsi bisogni e ciò che non è nel mio sentire. Il bisogno non può che valorizzare la soggettività poiché ognuno di noi vive il proprio bisogno a modo suo. L’amore si può realizzare solo nella diversità. Oggi non è solo una diversità biologica ma è anche una diversità psicologica. Nasce così la responsabilità dell’amare, di sviluppare se stessi e andare all’altro consapevoli e sviluppati. La consapevolezza significa anche riconoscere il limite di chi e di come sono. Allora nasce il problema della corrispondenza. Andrò incontro ad una persona che mi completa, o che mi completa il più possibile, affinché insieme si sviluppi qualcosa per stare meglio. Questo è il senso del lavoro e dell’amore insieme e come sviluppo anche della pazienza che è il fondamento dell’amore. Pazienza significa patire non solo perché l’altro è in un certo modo ma anche per come io mi rapporto, per chi sono, per i miei sbagli, per cosa vorrei essere e non sono, per come vorrei dare e non dò.
La consapevolezza è il fondamento di tutto quello che ora stiamo dicendo poiché senza consapevolezza tutto questo non serve a niente. Nella proiezione ci possiamo definire morti viventi poiché la proiezione è il nulla e non permette di instaurare alcun rapporto. Questo è il dramma quotidiano! Se poi si pensa che le persone sono pure uguali tutto diventa ancora più difficile. L’ amare è prendere coscienza della propria vita e tradurla in un’azione nella relazione con il mondo e con l’altro. È così che si può uscire dal sogno, dalla fantasia, dalla pretesa ed entrare in una dimensione di lavoro e di sviluppo dove IO cambio per amare l’Altro. Quando si pretende che l’altro cambi affinché si possa amarlo, non ci riesce mai. Io cambio per me stesso e poi vado incontro all’altro. La maggioranza delle persone ama con la pretesa, con la proiezione e cerca sempre di cambiare l’altro. Ma non riesce perché se l’altro cambia per noi diventa vittima di come noi siamo. In questo caso vive una finzione o un sacrificio e la sofferenza per il rapporto. La morte è l’uguaglianza, la non consapevolezza, il non sapere di sé, la non relazione poiché non può esiste la relazione. La relazione senza dinamica non esiste! La morte in un rapporto di coppia è la non corrispondenza.
Importante è stato l’utilizzo dello psicodramma. Attraverso lo psicodramma abbiamo rielaborato la figura paterna di un partecipante ed è emersa la differenza tra il padre percepito nello psicodramma e il padre reale. Si è potuto cogliere il desiderio del padre che si vorrebbe. Nel caso specifico la “pesantezza” del partecipante esperita nello psicodramma era legata al riconoscimento del fatto di avere un padre che non corrispondeva al padre che avrebbe voluto (quindi il fastidio e la pesantezza in relazione al padre reale). Con lo psicodramma si entra nella realtà. Essa viene vissuta non come idea e/o come fantasia, ma come esperienza, ti mette in rapporto con la realtà. Dopo aver preso coscienza del padre che il soggetto avrebbe voluto e che il padre che si ha non ci corrisponde, dobbiamo farci l’idea di che padre vorremmo e come diventare il padre che vorrei essere nel caso si abbia un figlio. Si passa così dalla dimensione passiva ad una dimensione attiva e non si ha più il bisogno del padre reale perché si ha il padre che si vuole avere già sviluppato nelle qualità personali. Questo è il senso della responsabilità. Diventare padre di se stessi significa sviluppare le qualità della paternità che si vorrebbe senza diventare un doppio. Nel caso del partecipante deve sviluppare quelle qualità di un padre comprensivo, con il senso della giustizia, del limite e della guida. Come diventare guida di se stessi? Come sviluppare il senso della misura? Come sviluppare il senso del voler bene? Come sviluppare quelle qualità che si avrebbe voluti vedere nel proprio padre? Quello che è mancato nell’infanzia non si deve né si può pretenderlo oggi, ma si deve svilupparlo con la coscienza di oggi.

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